Sembra proprio che, probabilmente dal 2019, potremo finalmente dire addio a cannucce, piatti e stoviglie di plastica monouso. Dopo aver messo al bando i sacchetti di plastica nel 2015, la Commissione Europea continua a perseguire il sogno di un’Europa libera dai rifiuti plastici. E così via dal continente europeo la plastica usa e getta , la stessa che nel mondo costituisce circa l’85% dei rifiuti marini. La legge si inserisce così nell’ambizioso piano della Comunità europea di ridurre l’inquinamento marino prodotto dai paesi dell’Unione. Il problema della plastica nei mari di tutto il mondo, ed in particolare nell’Oceano Pacifico, è sempre più pressante.
Nel Pacifico, tra la California e le Hawaii, si è accumulata, in un’area relativamente circoscritta, una quantità spaventosa di plastica, una massa talmente grande da venire etichettata oggi, nella sua traduzione italiana, come “grande chiazza di immondizia del Pacifico”. Qui a partire dagli anni 80, a causa del movimento a spirale in senso orario della corrente oceanica chiamata Vortice subtropicale del Nord Pacifico (North Pacific Subtropical Gyre), che permette ai rifiuti galleggianti di aggregarsi fra di loro, si è formato un accumulo di grandi dimensioni (la cui esistenza era stata già preconizzata in un documento pubblicato nel 1988 dalla National Oceanic and Atmospheric Administration – NOAA degli Stati Uniti). Uno studio condotto da un team internazionale di scienziati con la Ocean Cleanup Foundation e pubblicato giovedì 22 marzo 2018 sulla rivista Scientific Reports ha quantificato per la prima volta la dimensione reale di questa “Great Pacific Garbage Patch”. La tristemente famosa massa di detriti, nota anche come “isola di plastica”, risulterebbe, quindi, 16 volte più grande del previsto: l’intera estensione di questa massa di spazzatura di almeno 80mila tonnellate occupa oggi uno spazio grande quasi tre volte la Francia. Laurent Lebreton, l’autore principale della ricerca, ha dichiarato che l’area sta crescendo in maniera esponenziale e il 99,9 per cento di quello che i ricercatori hanno estratto dall’oceano è plastica. Le stesse materie plastiche finiscono, poi, per disintegrarsi in minuscole particelle che spesso vengono mangiate dai pesci e che , quindi, possono arrivare sulle nostre tavole. Sono l’8% della massa totale di plastica dispersa in mare, ma ben il 94% dei 1.800 miliardi di pezzi che fluttuano sugli oceani. La preoccupazione oggi è quella di ripulire quest’area di mare, ma quella di domani è che entro pochi decenni i pezzi più grandi di detriti possano trasformarsi in microplastiche, molto più difficili da rimuovere dall’oceano. Anziché biodegradarsi, la plastica si fotodegrada, ovvero si disintegra in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono; nondimeno, questi ultimi restano plastica e la loro biodegradazione resta comunque molto difficile. Non basterebbe, infatti, in questo caso ricorrere ai metodi tradizionali per rimuovere la plastica ossia usare delle reti attaccate alle barche.
Questo studio ha permesso anche di risalire all’anno di provenienza di parte dei rifiuti: in una campionatura di 50 pezzi, per esempio, ce n’erano uno del 1977, sette degli anni Ottanta, 14 degli anni Novanta, 24 del Duemila e 1 dell’ultimo decennio. Oggi si produce 20 volte più plastica che negli anni Sessanta (di cui un terzo per gli imballaggi) e, se non si metterà freno alla situazione, entro il 2050 la massa di plastica negli oceani supererà in peso quella di tutti i pesci dei mari, mentre il 99% degli uccelli marini avrà ingoiato quantità più o meno elevate di plastiche. In contemporanea con la pubblicazione dell’articolo scientifico su Scientific Reports sull’isola di plastica, in Gran Bretagna è stato pubblicato il rapporto Foresight Future of the Sea secondo il quale l’inquinamento da plastica negli oceani potrebbe triplicare da qui al 2050 a meno che non sia messa in atto “una risposta di grandi dimensioni” per evitare che la plastica arrivi negli oceani. Perché, dopotutto, la “Great Pacific Garbage Patch” non è l’unica, ma è solo una delle diverse isole di rifiuti ad oggi conosciute.
Nuove norme europee sono così in arrivo proprio per i prodotti usa e getta. Saranno infatti a breve banditi: cotton fioc, posate, piatti, cannucce, mescolatori per bevande e aste per palloncini. Tutti prodotti che in futuro dovranno essere fabbricati solo con materiali sostenibili, facilmente disponibili ed economicamente accessibili. Per quanto riguarda altri oggetti sempre in plastica e molto utilizzati, come contenitori per cibo e bevande, la legge propone di limitarne l’uso fino a quando non sarà trovata una valida alternativa. Inoltre, sugli imballaggi di questi prodotti dovrà esserci una etichetta che segnala l’impatto negativo che hanno sull’ambiente. La nuova iniziativa europea si inserisce in una più ampia strategia a livello continentale formata dal pacchetto sull’economia circolare approvato definitivamente dal Consiglio e Parlamento europeo pochi giorni fa e dalla tassa sulla plastica proposta da Bruxelles per finanziare parte del prossimo bilancio dell’Unione (2021-2027) in modo da rendere più conveniente la ricerca di materiali alternativi da parte dell’industria e ridurne la produzione. Infine entro il 2025 gli Stati membri dovranno raccogliere il 90% delle bottiglie di plastica monouso per bevande, anche attraverso sistemi di cauzione-deposito. Ciascun Paese dovrà creare campagne di sensibilizzazione ed i produttori di tali materiali dovranno etichettare in modo chiaro i loro prodotti e fornire spiegazioni esaustive riguardo il loro smaltimento. Verranno, in aggiunta, offerti degli incentivi economici a quei produttori che decideranno di usare materiale sostenibile. Per Bruxelles la misura, oltre a salvaguardare ambiente e salute , rappresenta anche un’opportunità economica per le aziende che , grazie ad incentivi pubblici, dovranno creare economie di scala e diventare più competitive per piazzare beni sostenibili nei mercati globali. Secondo Bruxelles tale direttiva eviterà l’emissione di 3,4 milioni di tonnellate di CO2, eviterà danni ambientali che costano alla comunità 22 miliardi di euro e farà risparmiare 6,5 miliardi di euro ai consumatori. Una prima “risposta di grandi dimensioni” per evitare che la plastica arrivi negli oceani è stata così finalmente data.